martedì 31 agosto 2010

Le figlie di Ananke. Black Light - cap.5

Capitolo 5

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I wonder every day

as I look upon your face, aw huh..

everything you gave,

and nothing you would take, aw huh..

nothing you would take

everything you gave.

Did I say that I need you?

Just Breathe - Pearl Jam



Anno 2010

Il ticchettio monotono dell’orologio tamburellava implacabile nella sua mente. Ryker mugolò schiacciando il cuscino con un pugno. La sveglia segnava le dieci del mattino; era mercoledì e suo padre era a una visita medica con Matteo, mentre Lucrezia era a scuola e lui sarebbe dovuto essere già fuori casa, al ricevimento del suo relatore.

Non era da lui dormire a lungo la mattina, eppure in quel periodo passava le notti tra incubi e insonnia e l’alba tardiva dell’inverno giungeva fin troppo rapida e luminosa.

Si preparò in fretta e raggiunse l’università con la metro, maledicendo il sudiciume della linea B, che sembrava volergli restare sulle dita per giorni interi. Il suo professore gli disse che le vacanze natalizie lo avevano distratto troppo e che avrebbe dovuto fare qualcosa, magari scendere dalle nuvole e tornare in mezzo ai mortali. Ryker pensava che la richiesta fosse quanto meno plausibile.

Rimase in biblioteca, cercando di concentrarsi; un tentativo vano che gli costava una forte emicrania. Gli occhi neri di Thari lo perseguitavano da quando era stato sul tetto assieme a lei. Per non parlare del fatto che non fosse per niente certo di aver vissuto quel momento e tutti quelli a seguire in cui avvertiva fruscii e risatine.

Si era svegliato nella sua camera, il mattino dopo quel primo incontro, certo di aver fatto un brutto sogno. Poco dopo, però, il portiere aveva portato le loro chiavi, raccontando di averle trovate attaccate al portone. La famiglia gli aveva chiesto come fosse riuscito ad entrare in casa senza, e il padre, Massimo, lo aveva accusato di essere tornato a casa ubriaco. Ryker avrebbe voluto rispondere loro qualcosa di sensato, ma dalle sue labbra uscivano solo parole sconnesse.

Non era ubriaco, non aveva neppure bevuto quella sera e, anche fosse stato, non avrebbe potuto aprire la porta di casa con il solo potere dell’alcool. Ma cosa doveva dire, che aveva visto la Morte? Che era volato su un tetto e aveva fatto quattro chiacchiere su il Bene e il Male? Ryker non sapeva a cosa credere: se le sue chiavi non fossero rimaste alla portata di tutti, forse il resto avrebbe avuto un senso. Forse qualcuno lo aveva aggredito per strada, lacerandogli i vestiti e bruciandoli un fianco, ma le sue chiavi erano rimaste là.

Se solo suo padre non avesse avuto una marea di problemi di cui occuparsi, lui avrebbe potuto parlargliene. Non era così, e non gli avrebbe regalato un ulteriore impiccio: un figlio pazzo.

Poco dopo le diciannove, uscì dalla biblioteca e inviò un messaggio alla sorella, avvisandola del ritardo. Decise di percorrere l’ultimo tratto di strada a piedi per non dover aspettare l’autobus.

Durante il giorno aveva piovuto e ora l’aria fredda era umida e sembrava intenzionata a voler raggiungere le ossa di qualsiasi essere vivente. Un sospiro gli uscì vaporoso dalla bocca congelata.

Accelerò il passo, poi qualcosa lo bloccò, come se qualcuno lo avesse trattenuto per la giacca. Si voltò a guardare dietro di sé, ma vide solo una ragazzina imbacuccata e del tutto vestita di viola portare a spasso il cane, che aveva un guinzaglio dello stesso colore. Ryker sorrise, la osservò imboccare un altro vicolo, e tornò sui suoi passi.

Un fruscio veloce raggiunse le sue orecchie e lui si fermò. Uno spostamento d’aria, un altro fruscio. Lui aggrottò la fronte e tese le orecchie. Qualcosa gli sfiorò una guancia, simile a una carezza.

«Thari?» Mormorò.

Gli rispose il gocciolare d’acqua di una grondaia.

Poi un brivido, una frazione di secondo in cui tutto divenne buio - un solo istante - come se la luce si fosse spenta e riaccesa per un abbassamento di tensione. Ryker sbatté le palpebre, pensando che l’impressione fosse quella che lo spostamento d’aria fosse dentro di lui. «Thari, sei tu?» Ripeté, e si sentì uno sciocco.

Stava impazzendo. Aveva le traveggole, sentiva rumori, vedeva la Morte, si sentiva pedinato. Stava diventando matto, come le persone che si vedono nei thriller o negli horror. Sarebbe finito da uno psichiatra; lui… l’unico che aveva superato indenne la morte della madre. Forse non era andata proprio così. Forse adesso manifestava ciò che per anni aveva taciuto, il suo squilibrio era rimasto latente e ora veniva a galla; in fondo i suoi fratelli non erano normali.

Ryker provò una fitta di dolore a quel pensiero. Il cuore gli salì in gola. Paura e rabbia, come infinite punture di spilli nel petto. Si obbligò a correre verso casa, ma non appena allungò un passo qualcosa lo fece cadere.

I palmi delle mani strusciarono a terra e bruciarono, lui le girò e le guardò con il respiro corto. Irrigidita dal freddo la pelle si era subito spaccata, sanguinando. I guanti, la crema, non usava mai nulla. Ma a cosa sto pensando? Ryker si guardò intorno, il fruscio insistete, la sensazione che avrebbe potuto piangere come un moccioso. Cercò di fare un respiro profondo.

«Lasciami in pace...» La voce carica del panico che lo stava divorando.

Una folata di vento, un battito d’ali e di nuovo tornò ad ascoltare il gocciolare secco dell’acqua piovana.

***

Il termometro segnava 36,6 gradi. Ryker sbuffò.

Era a letto e sentì che suo padre stava lavando i piatti, compito che avrebbe dovuto svolgere lui. Incubi e traveggole lo perseguitavano e la sua famiglia lo guardava preoccupata pur non sapendo cosa stesse vivendo. Lanciò un pugno al cuscino, come faceva spesso, e rimase a sentire i rumori della casa, fino a che Massimo Mancini non uscì dall’appartamento con passo claudicante.

Non aveva la febbre, quindi si alzò per fare una doccia calda. In camera si vestì con insofferenza e poi cercò di sistemare la stanza; stava rimettendo dei libri su uno scaffale quando un brivido di freddo lo colpì alla schiena.

Si voltò e trasalì. «Thari!»

«Ciao. Non volevo spaventarti.» La finestra si richiuse senza emettere suoni.

Lui strabuzzò gli occhi; il battito ancora accelerato. «Non volevi… Porca miseria, che stai combinando? Non potevi bussare al vetro?»

«Prima che tu potessi vedermi e aprire, mi avrebbe visto tutto il tuo quartiere.»

Indicò la porta. «La prossima volta bussi da là.»

Thari pencolò sulle gambe. «Ti va di uscire? Non mi trovo a mio agio qui. Devo parlarti.»

Ryker poggiò le spalle alla parete e premette tra gli occhi con le dita. Era mattina e già aveva l’emicrania. «Ancora non capisco se sto sognando. Portami dove vuoi.» La finestra si riaprì. «Oh, no; dimmi che non dobbiamo volare.»

Volarono.

Il corpo di Ryker rigido tra le braccia di Thari, l’aria frizzantina che pizzicava la pelle, il cielo terso che brillava infinito sulla città. Roma sembrava un animale in collera, una districata distesa di vene pulsanti, dal respiro spezzato; giaceva turbolenta nel prato verde e tutt’intorno la neve. La neve dei monti laziali, silenzioso guanto a cingere la rabbia.

Prima di poter osservare il mare a ovest, i piedi del ragazzo toccarono una superficie dura. Thari non lo lasciò e lo poggiò con straordinaria delicatezza sulla parte più alta del Colosseo.

«Devi sempre scegliere posti così alti?» Si lamentò Ryker.

Lei gli mostrò un sorriso; la dolcezza che illuminava il suo viso scuro. «Soffri di vertigini?»

«No.» Rispose troppo velocemente. Guardò un gruppo di turisti adolescenti ai piedi dell’anfiteatro. «Ecco, non vorrei finire spiaccicato in mezzo a quella bolgia di ragazzini urlanti. Le nuove generazioni sono insopportabili.»

Lei si sedette, obbligandolo a fare lo stesso. «Non finirai spiaccicato da nessuna parte.»

Ryker sospirò, tentando di liberare il polso dalla stretta di lei, la quale, però, non lo lasciò. «Starò anche diventando matto, ma posso farcela.»

«Ne sono certa. Tuttavia se perdi il contatto con me, risulterai visibile a tutti, allora sì, che tutti penseranno che sia matto a startene tutto solo in cima all’anfiteatro Flavio.» Fece penzolare i piedi oltre il bordo esterno del monumento e guardò Ryker incrociare le gambe e poggiare il palmo sul travertino. Lei liberò il suo polso e poggiò la propria mano su quella di lui.

«Quindi dobbiamo toccarci sempre?» Domandò Ryker osservando la loro differenza di colore. Lei parve in imbarazzo, allora lui proseguì cambiando discorso. «Che cosa volevi dirmi? Che sono pazzo perché parlo con la Morte

«Non sei pazzo. Sei solo venuto a conoscenza di un mondo che gli umani non dovrebbero conoscere.» Rispose con semplicità. «Anzi, direi che l’hai presa piuttosto bene.»

«Così bene che farei il bis.» Le lanciò un’occhiataccia.

Lei piegò il capo, e rimase in silenzio. I capelli scivolavano nell’aria, scomposti; le coprivano parte del volto, avevano il candore della neve e come neve brillavano di azzurro e d’argento sotto il cielo. La pelle nera, alla luce del giorno, assumeva dei riflessi più chiari come fosse ossidiana. Ryker notò che a differenza di Helina, la pelle di Thari non era una tonalità scura del marrone, bensì del grigio.

«Mi piace quello che provi per la tua famiglia.» Disse lei osservando un gabbiano volteggiare nell’aria. «Tu sei un umano strano: ti dedichi a loro senza volere nulla in cambio, mai. Non ami la tua famiglia perché è perfetta, perché ti fa ridere e ti permette un dialogo; non la ami perché ti lascia libero o perché devi. La ami perché non puoi fare diversamente, nutri un sentimento che trovo difficile assaporare su questa terra. Non è l’amore che alcune madri provano per i figli, è qualcosa di diverso. Ed è intenso, riempie il tuo essere.»

Ryker aveva aggrottato la fronte, nel tentativo di comprendere cosa il demone stesse dicendo. «Beh, sai, la morte di mia madre…»

«Lo eri anche prima.» Lo interruppe con dolcezza. «Lo sei sempre stato, hai sempre avuto questo amore puro per loro; il desiderio implacabile di dare il tuo meglio per essere d’aiuto.» Thari strinse le labbra. «È per questo che ti seguivo. La percezione di ciò che provi, di quello che vivi, mi affascina, mi invade. Io sono figlia di un umano e rendermi visibile mi permette di avvertire meglio alcune sensazioni.»

«Perché?»

Si strinse nelle spalle. «Non lo so. Da quando sono nata non ho mai conosciuto nessuno come me. Sono figlia di un uomo di questa epoca.»

«Quale epoca?»

Lei mosse una mano a disegnare un semicerchio intorno a loro. «Questa. Quella che conoscete voi. In altre epoche, epoche che voi neppure immaginate, ci sono stati figli come me, che nascevano dall’incontro di esseri umani e demoni. Ma i demoni hanno compiti precisi, incomprensibili agli umani e gli umani impazziscono facilmente, così è stato vietato ogni legame. Quando mia madre ha infranto questa regola, non erano ancora previste conseguenze. Ora sono stata io a infrangerla e ci sono conseguenze ben precise. Se nessuno avesse saputo, avresti potuto continuare a vivere la tua vita e io la mia. Se il capo delle milizie dovesse venirne a conoscenza, tu potresti salvarti con una perdita di memoria di ciò che sai, tuttavia in quel caso io non avrei più la possibilità di agire su questo piano dell’esistenza; sul piano umano. Perderei l’essenza di ciò che sono, come figlia di Ananke, come demone della rinascita. Di fatto, perderei la parte più importante d me.» Thari fece una pausa. Scrutò l’espressione concentrata di lui, le ombre della confusione. Osservò i riflessi biondi tra i capelli color cenere e sperò che lui potesse comprendere almeno in parte. «Al momento, il capo delle milizie non ne è a conoscenza, ma alcuni demoni lo hanno saputo. Questo vuol dire che si sentono liberi di poterti dare fastidio.»

«Sono loro a perseguitarmi quando sono solo?» Chiese lui a voce bassissima.

«Sì. Ed è il minimo: quello che potrebbero fare può andare molto oltre. Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione: passiamo l’esistenza a far rinascere umani, e a seguire coloro per cui è stato stabilito una morte non naturale, per studiare i loro comportamenti, la loro anima, per studiare il modo più giusto di farli rinascere.»

«Ci meritiamo il modo migliore per morire?» Domandò sorpreso Ryker.

«No. Il modo migliore per noi.»

«E per te il modo migliore per far morire mia madre era un cancro all’utero? Una malattia durata più di cinque anni?»

Thari fu investita dalla collera di lui, dal dolore e l’odio. Era l’odio, in una persona che non lo aveva mai provato, a farla fremere. Premette la mano su quella agitata del ragazzo per non lasciarla andare.

«Perché? Dimmi almeno perché?» Lo sguardo mesto negli occhi blu aveva un sapore amaro.

«Ryker», mormorò, «non farmi domande di cui non vuoi conoscere la risposta. Non sei in grado di comprenderle, non puoi farlo. Posso dirti solo che le sofferenze che vivete, alcune di esse, non sono frutto delle vostre azioni. Non sono io a decidere quando una persona deve rinascere, né il modo in cui avviene. Noi riportiamo quello che vediamo e altri decidono come e quando dobbiamo agire.»

«E tu non puoi smettere di farlo? Non sai il dolore che provochi?» C’era ancora rabbia nella sua voce.

C’erano figlie di Ananke che sul momento di far rinascere alcune persone, non trovavano la forza. Erano là, accanto a loro, ma poi se ne andavano lasciando la loro fragranza di rose selvatiche, senza terminare il lavoro per cui erano nate e subendone tutte le conseguenze. Lei non sapeva cosa volesse dire. «Smetteresti di respirare, se sapessi che fa male a qualcuno?»

Ryker rimase in silenzio, lo sconcerto sul viso, il battito accelerato. «Perché mi fanno questo? Perché lo trovano divertente?»

Thari abbassò il mento. «Per alcuni di noi è divertente e…» si morse un labbro. «È un modo per prendersela anche con me?»

«Con te?»

«Mio padre era un umano: è come se mi mancasse qualcosa, come se non fossi una di loro. Ho un compito che, per alcuni, non mi spetta. Ho commesso un errore, e non avrei mai dovuto farlo, lo pagherò caro.» Posò di nuovo lo sguardo su di lui. «Mi dispiace, Ryker, non volevo farti questo. Loro non si comporteranno bene con te e non so a cosa dovrai andare incontro.» Negli occhi tremò una luce di dispiacere e disprezzo. Disprezzo per se stessa.

Lui la fissò, tentando di districarsi in quel groviglio di emozioni: rabbia e frustrazione, la paura che si arrampicava nel suo corpo come edera opprimente e ondate di vertigini che si abbattevano su di lui graffiando e ruggendo. Non ultimo un senso di tenerezza. Tenerezza per quel demone dalla pelle corvina, che avrebbe potuto essere una qualsiasi ragazza sincera e bellissima sotto i raggi del sole. Tuttavia non lo era: era un demone della rinascita, della morte, che aveva portato via sua madre, lo aveva seguito per anni e ora aveva rovinato la sua vita e la sua sanità mentale. E gli altri demoni, ora, Dio solo sapeva cosa gli avrebbero fatto. «Non serve a nulla pregare?» Chiese in fine.

Lei strinse le palpebre, senza capire se fosse un tentativo di cambiare argomento. «Dipende.»

«Oh, fantastico!» Il ragazzo guardò accigliato i giardini del Monte Oppio sollevarsi fin quasi alla loro altezza.

«Pregare per chiedere qualcosa non serve a molto, non c’è nessuno ad ascoltarti. Ma pregare con il cuore serve alla costruzione della vita che sarà. Se preghi con sincerità, sarà la tua anima a beneficiarne, non il tuo corpo.»

Ryker fece un gesto brusco con la mano libera, come a dire di lasciar perdere.

«E sono ascoltate le preghiere contro la possessione degli umani.» Continuò lei. «Per evitare di essere posseduti o per far andare via chi possiede un corpo umano.» Spiegò.

«Ah, sì? E cosa hanno di particolare queste preghiere?» Chiese in tono scettico.

«Non si possono possedere gli umani: viola il libero arbitrio.»

Lui scosse il capo. Come se non volesse accettare o non volesse più capire altro. «Ora che mi hai detto queste cose, cosa vuoi che faccia? Cosa vuoi da me?»

Un fruscio sordo. «Perdinci Bacco, le mie ali giungono al momento appropriato.»

Ryker trasalì, mentre due occhi spaventosi lo fissarono, all’improvviso, da molto vicino.



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Avviso tutti che i miei personaggi stanno iniziando a muoversi da soli, ma li riacchiapperò!

Per chi non lo sapesse, si dice che quando avviene un miracolo si senta profumo di rose, o di fiori in generale.

Il Colosseo è fatto di travertino, ma non so con certezza se il bordo superiore sia della stesso materiale, se sia stato usato -nel tempo- intonaco color travertino (come in altri punti) o se addirittura sia fatto di qualche altro materiale. Non sono riuscita a trovare informazioni in merito.

Grazie a chi sta seguendo questa avventura. Grazie per i consigli, i pareri e i commenti.


lunedì 30 agosto 2010

Le ombre nella notte.
Quella luce è sparita;
in un soffio,
s’è spenta
una candela.
Silenzio.
Noi. Un bacio.
Dolore si espande;
Amore
diffonde di sé
il sapore.
Dolce e Crudele.

marzo 2000

venerdì 27 agosto 2010

Le figlie di Ananke. Black Light - cap.4

Capitolo 4

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The worst is over now and we can breathe again
I wanna hold you high, you steal my pain away
There's so much left to learn, and no one left to fight
I wanna hold you high and steal your pain.


Anno 2010

Ryker uscì sulla strada e tirò su la cerniera lampo del giacchetto fino al collo. Le luci giallognole dei lampioni distorcevano le ombre su palazzi, sampietrini e angoli di asfalto. Una coppia gli passò accanto chiacchierando di un film e poi sparì verso il ghetto.

Strofinò i palmi delle mani tra loro e si incamminò verso casa. Al centro di Roma, in tutte le strade sembra esserci sempre qualcuno: svoltò più di una volta e incontrò un uomo che camminava di corsa, tre ragazzi che fumavano e una signora con un cane.

Arrivò davanti il portone di casa sua e tirò fuori le chiavi dalla tasca, nell’inserirle notò che qualcosa di molto scuro si rifletteva sulla placca d’ottone. Qualcosa che era al posto della fontana di marmo della piazzetta.

Si voltò di scatto. Qualsiasi cosa fosse, quella sussultò e subito dopo sgusciò dietro a una macchina. Ryker non perse tempo, attraversò lo slargo e raggiunse le macchine parcheggiate. La figura, più nera del nero, si spostò e con un balzo lo oltrepassò e corse in un vicolo buio.

Il ragazzo la seguì, ma nell’ombra quell’essere spiccò il volo e saltò con i piedi da una parete all’altra dei palazzi, fino a raggiungere i tetti, oltre i cornicioni intagliati.

Ryker fissò il cielo e strinse i pugni. «Maledizione», sussurrò a denti stretti. «Io non ti sto immaginando, io ti ho visto. Che roba sei?» Domandò a due piccole stelle sbiadite. Fece un passo indietro e abbassò il mento. «Le chiavi!» Le aveva lasciate attaccate al portone.

Si voltò.

Con un tonfo sordo, qualcosa piombò davanti a lui rotolando: un latrato di cani e un fruscio di ali frementi. Ali. Piume. Si immobilizzò terrorizzato dalla paura. Le due, o forse tre creature a terra erano talmente nere da distinguersi nell’oscurità della strada.

Nel gelo della notte, Ryker provò un’ondata di caldo, seguito da un brivido di freddo, come se lava e ghiaccio si stessero abbattendo sul suo corpo. Non era in grado neppure di richiudere la bocca, mentre le bestie, i mostri o quello che erano, combattevano a meno di due metri da lui.

Poi una delle tre si staccò, si sollevò in piedi e lo guardò. Il nero della sua figura delineava le forme di una donna, tuttavia due grosse ali grigie si spalancarono dietro di lei, lo raggiunsero e, con una forza che lui non avrebbe mai potuto sospettare sulla punta piumata di alcun uccello, lo attirarono al viso femminile.

L’essere aprì la bocca mostrando un ghigno di pura crudeltà.

Un altro rumore sordo. Uno scricchiolio. Un urlo.

Nell’aria una tensione fatta di elettricità, di suoni non udibili a orecchio umano e di un dolore bestiale, si liberò come un’esplosione. Lui, però, non l’avvertì.

«Lascialo andare.» Una voce quasi cristallina provenì da dietro le spalle del mostro, che liberò il ragazzo con un ringhio stridulo e, prima che lui se ne potesse rendere conto, mosse una delle due ali verso il fianco del giovane e lo squarciò.

Lo lasciò e con uno scatto fulmineo saltò, prese la creatura a terra e sparì librandosi nell’aria. Ryker, incredulo, boccheggiò e crollò sulle ginocchia. «Aiuto», pensò di aver gridato. «Aiuto…» Ripeté, ma la voce si spense sulle sue labbra.

Uno spostamento d’aria, un giramento di testa; credeva di essere caduto sul selciato, invece cadeva verso il cielo e le due uniche scialbe stelle nella notte romana. La terra; dov’è la terra? La creatura lo fece sdraiare su un piano sconnesso.

Tegole.

«Ti prego, non…», rantolò.

«Shh.» Dita veloci gli aprirono il giacchetto, sollevarono il maglione e la camicia e infine lo tastarono. «Credevo peggio.»

Un tepore rassicurante gli accarezzò il fianco, come il sole sulla pelle in pieno inverno, solo più denso. Poi, la ragazza - perché lui aveva sempre pensato che fosse una ragazza - posò una mano dove era stato colpito e lo guardò.

Occhi neri come il petrolio, come gli abissi più profondi della terra. Come la notte. Dannatamente umani per via della sclera bianca che faceva risaltare l’iride. «Cosa sei?» Chiese Ryker con voce flebile.

«Mi chiamo Thari.» I suoi capelli argentati scivolarono serici sul volto di lui, mentre lei avvicinava le labbra alla sua fronte, senza toccarla. «Sai di vita.» Disse, e il ragazzo respirò il suo profumo di rose selvatiche. «Potevi morire, ma ora stai bene.» Allontanò il viso da lui, ma non spostò la mano.

«Cosa sei?» Domandò di nuovo Ryker.

Thari aprì e richiuse le ali dietro le spalle. «Secondo te cosa sono?»

«Un… angelo. La morte. Un angelo della morte!» Farfugliò. «Oh, beh, non lo so.»

Lei ridacchiò come una bambina. «A volte gli umani ci hanno chiamati così. Ma siamo demoni. Io sono un demone della rinascita.»

«Per questo mi hai salvato la vita?»

Lei scosse il capo e la sua capigliatura scintillò in un susseguirsi di fili di raso azzurrino. Spostò la mano e analizzò lo strato di pelle trafitto che ora aveva solo una leggera macchia rossa. «Non puoi capire, perché sei umano.»

«Cosa non posso capire?»

La ragazza si sedette sui talloni e guardò i tetti della Città Eterna seguire pigri la linea ondulata dei colli capitolini. Da quel punto, attraverso terrazze, antenne e paraboliche, poteva scorgere la cupola di San Pietro, silenziosa in un giallo penetrante. Le illuminazioni, che dal basso salivano verso la cima dell’enorme basilica, incontravano, oltre agli uccelli notturni, due figure in lotta tra loro: una figlia di Ananke e un Figlio della Luce. «Un demone della rinascita.» Ripeté e si voltò a scrutarlo. «Non della vita; la vita come la intendete voi.»

Lui si sollevò sui gomiti, sbattendo le palpebre. Confusione e incredulità non lo lasciavano pensare in maniera logica; un susseguirsi di domande affollavano la sua mente. «Tu…» non era certo di quello che stesse per dire. «Tu eri al funerale di mia madre. E al cimitero. Ti ho sognata?»

«No.»

Scorse l’estremità di un'elsa spuntare dietro di lei. «Hai portato tu via mia madre? Tu sei la morte.»

Si limitò a fissarlo.

Lui provò una morsa allo stomaco, un peso insostenibile. «Oh, no, sei qui per me, tu… io… mio Dio.»

«Non nominare il nome di Dio invano.» Bisbigliò lei. «E… non sono qui per te. Non proprio.»

Il ragazzo si sollevò a sedere e studiò la ferita rimarginata nella luce fioca. «Cosa vuoi da me?» La voce si incrinò.

«Ryker…»

«Come sai il mio nome?» La interruppe brusco.

Lei allungò una mano verso la sua, ma lui la spostò. «Non sono qui per te. Non nel senso che hai capito: mi incuriosivi e ti seguivo, nonostante sia contro gli ordini. So che mi hai visto un paio di volte, per sbaglio. Io ti ho seguito molte volte in più. Ma tu non devi ancora rinascere. Vedi, gli umani morirebbero per cause naturali, sempre; noi ristabiliamo l’equilibrio. Quando le persone nascono, abbiamo più o meno idea dell’anima che si troverà in quel corpo e sappiamo quando la dovremo prendere e portare a nuova vita. Gli antichi per tanto tempo ci hanno definite Moire, il fato, il destino; sbagliando. Noi decidiamo il momento della rinascita, non il destino.»

Lui la guardò perplesso. «Eri solo una bambina quando hai ucciso mia madre.»

«Quando ho fatto rinascere tua madre» replicò con un suono che vibrò come un diamante «non ero una bambina, sebbene avessi quell’aspetto. E sebbene ora abbia questo. Non abbiamo un’età, non in termini umani.»

Lui piegò le gambe e le incrociò, abbracciandosi per non sentire freddo e facendo attenzione a non guardare verso il basso. «Siete eterni?»

«Solo Dio e Satana sono eterni.»

«Allora esistono davvero? E cosa dice Dio di quello che fate? Di noi?»

«Ryker, non sono interessati alla vostra vita, non come pensate voi: avete il libero arbitrio, è tutto quello che importa loro. È quando rinascerete che avrete importanza per loro; le conseguenze delle vostre libere scelte hanno importanza, nient’altro. Sono il Bene e il Male, lo saranno sempre e non è comprensibile per voi.»

«E com’è questa vita dopo la morte?»

Lei si strinse nelle spalle. «Non lo so.»

Ryker rise, per nulla felice. «Sto facendo un incubo. Non può essere reale, non posso trovarmi quassù con te, con una cosa come te, tu…»

«Io sono reale e non sono una ‘cosa’. E…» si fermò stringendo le palpebre. Con un unico movimento fluido e silenzioso si mise in piedi. «Devo portarti a casa. Non puoi stare qui.»

«Certo che no, sono su un tetto.» Ironizzò.

Thari lo fulminò con lo sguardo e lui pensò che fulminare fosse un eufemismo; una scossa lo percorse in tutto il corpo. «Ne va della tua vita.» Disse alzandolo di peso, senza il minimo sforzo.

«Quella di ora o quella che sarà?»

«Quella di ora.» Rispose lei senza scomporsi. «Ti ho raccontato troppe cose. E non dovevo.» Scivolò dietro di lui e lo afferrò alla vita, poco sopra la ferita. Prima che lui potesse anche solo pensare di protestare, lo strinse e si alzò in volo veloce, ma con un battito d’ali lento e aggraziato.

Ryker chiuse gli occhi aggrappandosi alle sue braccia sottili e forti e li riaprì lentamente poco dopo. Roma si disegnò sotto i suoi piedi, con le sue mille luci notturne, i suoi monumenti magici e il suo fiume scuro, mentre volteggiavano nell’aria; possibile che nessuno li avrebbe visti?

«In questo momento non siamo visibili a occhi umani.» Spiegò lei come se gli avesse letto nel pensiero. Virò e puntò verso il suo palazzo, il suo piano, la sua finestra.

«Ci schianteremo!» Gracchiò impaurito, ma la sua finestra si aprì come se qualcuno li stesse invitando ad entrare, e loro piombarono dentro.

Ryker dovette respirare a bocca aperta e ritrovare l’equilibro appena Thari lo lasciò libero. «Morirò lo stesso. Per cause naturali: infarto.»

«L’infarto non rientra nelle cause naturali.» Lo informò lei pragmatica.

«Ah, no?» Chiese, poggiandosi al muro della sua camera e saggiando la resistenza delle sue gambe.

Lei fece un gesto con la mano. «Lascia perdere. Troppo complicato per uno come te.»

Ryker spostò le dita sulla parete e, senza staccare gli occhi da lei, accese la luce. Entrambi sbatterono le palpebre e Thari chiuse le ali dietro di sé meccanicamente. Indossava un velo nero come il suo corpo, che le copriva il bacino e il seno; non aveva nient’altro, a parte gli anfibi.

Lui fece un passo verso di lei, che ne fece uno indietro. «Hai paura di me, signora Morte?» L’apostrofò con una nota dolce che non aveva previsto.

Lei si morse un labbro color pece, con i denti bianchi come neve immacolata. «Nessun umano mi ha mai vista.»

«Io sì.» Ribatté lui fermandosi a venti centimetri da lei.

Thari sollevò il viso verso di lui, con aria sicura. «Ma non così.» Precisò perdendosi nei suoi occhi azzurri, che le ricordavano i cieli limpidi delle steppe del nord Europa.

«Non così.» Convenne, e le poggiò una mano sulla guancia, in un tocco di seta, ma come se stesse studiando un oggetto, invece che una persona. «Di cosa sei fatta?»

Lei lo fissò come se non avesse udito la domanda. Inchiodata dallo sguardo di lui, si sforzò di celare un’ondata di panico, che non sapeva giustificare. Il suo cuore vermiglio pulsava fremente e rimbombava con mille eco in ogni singola parte del corpo. Spostò l’attenzione oltre le spalle di lui, dove si trovava una foto della famiglia Mancini di molti anni prima: due adulti e tre bambini dai capelli biondo oro e morbidi riflessi di sole. «Sono un demone», rispose quasi in un sussurro «e i demoni sono in parte umani e in parte no. Quello che vedi è un corpo umano con poteri non umani.»

Ryker osservò i suoi lineamenti perfetti, le labbra piene e socchiuse, il naso delicato; sollevò l’altra mano. «E le tue ali?» Domandò toccandole.

«Sono fatte di muscoli, tendini, pelle e piume. Ossa e sangue.»

Se il profumo di rose selvatiche che emanava da quel corpo così scuro fosse stato nettare da bere, lui non ne sarebbe mai stato sazio. Le sfiorò la spalla scoperta. «E la tua carnagione? Troppo sole?» Sorrise.

«È la mia essenza.»

Il ragazzo scostò le dita con uno scatto e lei strinse le labbra, pentendosi di avergli risposto la pura verità. Thari chiuse gli occhi. «Devo andare. Metti sulla tua ferita una pomata per le scottature.» Aggiunse.

«Mi scorderò di tutto questo, vero?»

Tornò a guardarlo e con tre passi lenti, all’indietro, raggiunse la finestra e spalancò i battenti con mani invisibili. Il vento metallico e sferzante di gennaio colpì Ryker, che ancora una volta si strinse nella giacca. «Se avessi tale potere, risparmierei ad entrambi i guai che sicuramente seguiranno a causa di questa notte.»

Con uno slancio saltò fuori, spalancando le ali color cenere.


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Grazie a chi sta seguendo questa avventura. Grazie per i consigli, i pareri e i commenti.

Grazie per i "mi piace" (posso vedere solo l'ultimo nome e solo quelli delle persone che ho come amiche su fb, quindi non so chi siete, ma ne sono davvero felice).

giovedì 26 agosto 2010

Nella fredda
acqua di un
lago
s’immerge
lo splendore
della luna,
e i raggi brilluccicano
fatati
sulla
soffice neve,
e dove
non arrivano
questi,
si perdon
profondi sguardi
di lupo.
S’acquattan
le nuvole
dietro chissà
quali meandri
di stelle;
e respira la notte
nelle distese
di segreti
preziosi.
Dicembre '98

lunedì 23 agosto 2010

Le figlie di Ananke. Black Light - cap.3

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Capitolo 3

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PROLOGO; CAP.1; CAP.2; CAP.3; CAP.4; CAP.5;CAP.6; CAP.7;CAP.8; CAP.9; CAP.10; PER SAPERNE DI PIù

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Thank you for making me
feel like I am guilty,
making it easy to
murder your sweet memory.


Anno 2009

«Signore, questa zucca gialla è buonissima.» Gracchiò un’anziana pulendo un carciofo con un coltello e mostrando la bocca sdentata ad un uomo pelato.

Thari aggirò la bancarella di frutta e verdura, notando quanto fossero agili le dita rugose di lei, e si spostò per far passare una donna che, altrimenti, l’avrebbe attraversata - percependo un brivido - due secondi più tardi. Sorrise osservandola tenere per mano una bambina, che a sua volta teneva per mano una piccola Befana su una scopa di paglia. Un uomo gridò le bontà della sua carne e un altro si lamentò di dover portare un piccolo albero di Natale da solo.

La ragazza si inebriò del profumo intenso degli aghi dell’abete, quindi alzò gli occhi verso la statua scura di Giordano Bruno, che la fissava severo da sotto il cappuccio, e decise che vi fossero troppi piccioni; aprì le ali e si appollaiò sulla ringhiera in ferro battuto di uno dei balconcini di piazza Campo de’ Fiori. Fin da quando avevano smesso di compiere le esecuzioni capitali, andava spesso in quel luogo, sia di giorno che di notte, a respirarne l’aria rilassata, dal sapore sincero di paese; tuttavia ora era là a seguire Ryker e Lucrezia Mancini fare la spesa.

La ragazzina, il viso incorniciato dai morbidi capelli biondi che uscivano dal cappello di lana, teneva tra le dita bianche un pezzo di torrone al miele che le aveva regalato il ragazzo del bar, e le sue sottili labbra rosate erano macchiate di cioccolato, mentre sorrideva al fratello. Lui le stava dicendo qualcosa che Thari non riusciva a distinguere in mezzo ai mille rumori del mercato.

Con le braccia poggiate sulle gambe si beava del frastuono armonioso degli essere umani, quello presente nei loro corpi e nelle loro menti. Sapeva che vi fossero dei demoni nelle vicinanze, eppure non si aspettava di trovarne proprio nella piazza in quel momento. Due occhi neri si sollevarono a guardarla e subito dopo misero a fuoco Ryker dalla parte opposta della piazza. La ragazza quasi planò a terra con un balzo leggero, attutito dalle suole di gomma e rallentato dalle ali appena aperte. Estrasse la propria spada cristallina, aggrottando la fronte.

L’altro demone, una donna, le lanciò un’occhiata astiosa, che non riusciva a dissimulare una vaga paura, e imboccò via dei Giubbonari. Thari la bloccò prima che potesse prendere il volo e la spinse in un vicolo più stretto. «Lascia in pace quel ragazzo.» Sibilò.

«Ero solo venuta a controllare.» Farfugliò in risposta l’altra cercando di liberare il polso dalla presa ferrea di Thari. Mormorò qualcosa e si spostò guardinga lungo la strada, trascinandosi la ragazza dietro di sé.

Thari la strattonò e studiò i suoi lineamenti contratti, trattenendola su un lato del vicolo. Stessa madre, padri diversi; era così per la maggior parte delle figlie di Ananke. Quella che aveva di fronte era molto più giovane di lei, nonostante avesse un corpo di donna da molto più tempo; non era molto forte, ma soprattutto non era così coraggiosa. In quell’istante, percependo la presenza di un altro demone, Thari comprese. «Merda!»

«Thari…» Gli occhi dell’altra si spalancarono per lo stupore, mentre si rendeva conto della lama che la trapassava. «Io non…», provò a dire, tuttavia le parole si affievolirono sulle sue labbra nere. Una luce azzurrognola filtrò dal suo petto, divenne sempre più scura e divampò in bagliori quasi tangibili, come i riflessi di un'ossidiana.

Thari estrasse l’arma dal corpo del demone e batté un pugno sul muro, assaporando il piacere intenso di ciò che aveva fatto e imprecando per lo stesso motivo. Era conscia di come le sue mani si muovessero, irrazionali, prima del pensiero; chiuse gli occhi e dopo un momento li riaprì. «Che Dio ti benedica.» Lo disse con sincerità, come faceva sempre, ma la rabbia la divorò di nuovo un istante dopo e si fiondò nella piazza affollata, con in mano la spada ancora grondante di sangue azzurro.

L’altro demone, sul bordo più alto dell'unica fontana, situata nel lato nordovest, si preparò all’attacco.

Le loro lame si scontrarono con un fragore acuto; i loro muscoli si tesero carichi di adrenalina. I piedi erano a qualche centimetro sul pelo dell’acqua, che borbottava ignara nel freddo dell’inverno.

Thari dovette torcere il corpo in un movimento fulmineo e fare uno spostamento indietro. «Tua sorella è rinata, Sekhmet Nesert.» Disse con vago tono accusatorio.

«Tua sorella mi serviva solo a distrarti.» Replicò parando con facilità un affondo di Tahri, che sollevò le gambe, evitando un colpo dell’avversaria, la quale, però, le prese di striscio l'estremità di un’ala. Fingendo incuranza, voltò su se stessa per dare più forza all’arma. L’altra demone, tuttavia, si allontanò e si fermò sul tetto dell’edicola accanto. «L’avresti già perso, se quella mocciosetta della sorella non lo avesse fatto entrare dentro a quell'affollatissimo forno.» Disse Sekhmet con voce tagliente.

«Non puoi farlo, senza permesso.» La redarguì, atona.

«No, ma è divertente, quasi come te. E poi lo dovresti sapere: posso ferirlo quanto voglio, basta non farlo rinascere. Lui sa e non dovrebbe: se qualcuno lo scoprisse, e non è tuo interesse, non avrà da ridire.» Le campane di una chiesa poco lontana rintoccarono le ore. «Quanto a te, posso farti rinascere quando mi pare.»

Thari alzò il mento. «Fallo.» La sfidò.

Sekhmet sorrise beffarda, i lineamenti felini e i capelli voluminosi immobili sotto i raggi del sole abbagliante di mezzogiorno. «Voglio prima giocare con l’umano, e oggi non posso. Il nostro lavoro non aspetta, lo sai.»

Lo sapeva. Puntò l’arma verso di lei. «Quando vuoi.»

«Con piacere.»

***

Due ragazze gemelle dalla chioma riccia e rossa entrarono ridendo nel locale. Avevano il naso piccolo, le lentiggini e gli occhi verdi come il prato dopo un temporale.

«Ci sono un italiano, un’etiope, un mezzo danese e due irlandesi. Mi sembra un buon inizio per una barzelletta.» I denti chiari di Helina risaltarono sulla sua carnagione bruna.

Andrea le fece un gesto di disapprovazione con la mano e seguì lo sguardo di Ryker. «Quelle sì che sono due fighe. Facciamo una per uno?»

Helina gli assestò un pugno nello stomaco, e Andrea finse di provare un piacere masochista.

Ryker li guardò e sorrise. «Ringrazia il cielo che in questa terra ci sia almeno Helina a sopportati.»

Il ragazzo fece una boccaccia e strinse Helina schioccandole un bacio sulle labbra; lei si dimenò ridacchiando. «Va bene, Ryker. Mi accontento della moretta e ti lascio la prima e la seconda roscia

«Come sei gentile, grazie.» Rispose sarcastico.

«Cos’è questo tono? Non ti accontenti di due strafighe, buongustaio?» Gli lanciò un’occhiata maliziosa. «Dai, avanti, sfodera le tue doti di perfetto corteggiatore. Non cascano certo dal pero! Io e Helina ci possiamo benissimo consolare da soli; pago io, tu vai.»

Ryker osservò la birra nel boccale e la fece girare nel fondo. Il liquido luccicò riflettendo le luci soffuse del pub. «Tra poco devo andare via.»

Andrea fece un gesto infastidito con la mano. «A te Cenerentola te fa ‘n baffo.» Commentò in romano. «Nemmeno mi’ nonna va a letto così presto.»

Sul vetro, dietro la testa di Ryker, c’era disegnato un Colosseo stilizzato, che proiettava la propria ombra sul tavolo di legno. Lui ne seguì il contorno con le dita affusolate. «Devo andare a prendere Lucrezia.»

«Mandaci Matteo.»

Scosse il capo. «Stasera sta a casa con papà. E poi è mio dovere…»

«Oh, per favore.» Lo interruppe l’amico, più aspro di quanto avesse desiderato. «Ma perché è sempre tuo dovere?» Domandò con più dolcezza. «Tua sorella ha sedici anni, non è una bambina, o pensi di starle dietro anche quando avrà quarant’anni? Ryker, tutte le tue ragazze ti hanno mollato per questo. Io capisco la situazione di tuo padre e tutti gli impicci che hai, ma tua sorella… Alessandra quando ti ha lasciato ha detto che dedicavi più tempo a Lucrezia che a voi due.»

Ryker si strinse nelle spalle. «Non siamo stati insieme.» Replicò laconico.

«Non è questo il punto e tu lo sai. Lei ti ha lasciato perché...»

«So benissimo perché mi ha lasciato. Ma non credo che tu possa capire.» C’era una nota di accusa, per nulla velata, nella sua voce. Andrea non faceva che parlare male della propria sorella.

Ryker lo guardò negli occhi. Non era così ingenuo da credere che in tutte le famiglie si vivesse d’amore e d’accordo o per pensare che tutti si dedicassero al prossimo, tuttavia riteneva che gli altri non avessero a che fare con Lucrezia.

Poche persone sapevano cosa volesse dire vivere i primi dieci anni della propria vita con una madre malata, magrissima, priva di capelli e la pelle perennemente sudata, e poche di quelle persone avevano il carattere introverso e sensibile di sua sorella. Era adesso che lei stava rinascendo; adesso che riusciva a parlare con gli estranei senza trasformare le sue guance lattiginose in due pomodori maturi. Nell’ultimo anno, Lucrezia Mancini era migliorata a scuola, aveva iniziato a suonare il pianoforte davanti a qualche amica e aveva iniziato ad andare a qualche festa senza di lui.

A patto che lui fosse vicino, reperibile in ogni momento e pronto ad andarla a prendere. Lei ricambiava aiutando il padre con le stampelle e facendosi sentire mentre chiacchierava allegramente al telefono con le amiche, come tutte le sue coetanee.

Ryker sapeva che prima o poi avrebbe volato da sola, ed era quello che si augurava, quello che pregava tutti i santi giorni da quando erano bambini. Ora, però, sua sorella iniziava a mettere per la prima volta il suo visino all’esterno, a toccare la vita, ad annusarla e sbuffarci addosso come fanno i cavalli prima di leccare una mano tesa. E lui, per niente al mondo, avrebbe tradito proprio adesso la sua fiducia.

Andrea stava borbottando qualcosa, qualcosa che Ryker non aveva ascoltato. Helina diede una leggere botta alla gamba di lui, poi allungò un braccio e poggiò le dita del colore del cioccolato fondente su quelle ben più chiare di Ryker.

Gli occhi neri e liquidi di lei lo guardarono con un’espressione carica di tenerezza da dietro la cascata di riccioli crespi, su cui si stemperava la luce bianca di una candela dietro il suo capo. Lei e Ryker si conoscevano dal liceo, e mai in tutti quegli anni Helina gli aveva fatto pesare le abitudini della sua famiglia o fatto pressione. «Non ascoltare questo scemo.» Disse con voce bassa, smorzando la tensione. «Noi ragazze siamo molto più comprensive: se le tue ex hanno avuto da ridire, si vede che non ne valeva la pena.»

Ryker le sorrise, grato. Come sempre.


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Grazie a chi sta seguendo questa avventura.

Grazie per i "mi piace" (posso vedere solo l'ultimo nome e solo quelli delle persone che ho come amiche su fb, quindi non so chi siete, ma ne sono davvero felice).

venerdì 20 agosto 2010

Selly

Osservo il cielo, mentre aspetto che un tuo pensiero diventi squillo.

Cerco la luna che stasera si nasconde chissà in quali lidi, mi rannicchio sul letto, nel buio oliato di luci lievi. Ricordo Selene, quando nelle mie preghiere non era altro che Selly, veniva a posarsi, senza fretta e con dolcezza, sul mio giaciglio.

Ci fissavamo a lungo, e asciugava spesso le mie lacrime disperse tra i riflessi candidi e i miei capelli. Chiedevo di portarti da me... e ora...ora passa ogni tanto!

La lascio stringere il mio corpo, delicatamente, poi mi riconsegna alle tue braccia, che tanto ho cercato, per cui tanto combatto, e lei c'è sempre, là da qualche parte, sa che lotto, sa che amo!



2005


giovedì 19 agosto 2010

Rosa Bianca

*
Dedicato a una persona che conoscevo. Vi prego, non chiedetemi di più.



Ascoltava la musica; le piaceva ascoltare la musica, perché si ritrovava magicamente in altri mondi, in posti lontani: poteva vivere altre sensazioni, viveva quelle belle e quelle brutte intensamente, perché così non avrebbe mai vissuto se stessa. Mai quelle che erano le sue vere sensazioni. Con la musica poteva ascoltare, semplicemente; mai parlare. E lei non voleva parlare.



Qualcuno aveva accennato al mutismo elettivo, lei si era informata su qualche libro di cosa fosse, ma non era d’accordo: lei parlava con tutti, poco e raramente, ma con tutti. Avrebbe preferito se avessero detto “vita elettiva” poiché lei semplicemente non voleva vivere, se non per vedere i documentari e ascoltare musica che non le apparteneva.



Iniziava a non vivere ogni qualvolta quelle mani la prendevano, dolci e cattive, tra le lenzuola calde della sua stanza rosa, sotto la doccia della sera, sul divano con i fiori che un tempo era tanto bello. Aveva rovinato tutto. La sua prepotenza, quella sua faccia d’angelo che la guardava ormai sorridendo perché lei non aveva più forza di muoversi o piangere da parecchi anni, e lui era contento: poteva fare di lei quello che voleva, tra le sue gambe magre.



Cercava di concentrarsi sul profumo che metteva ogni mattina per sentirsi più pulita, ma lui era troppo pesante e la sua colonia era molto più forte. Avrebbe preferito che puzzasse di alcol. Sentiva molti fatti simili in televisione, non succedeva solo a lei: erano donne, bambine, infanti, a volte anche maschietti, ad avere questo in comune con il suo corpo, ma quello che sentiva succedeva una volta, magari per strada, magari in un posto buio e freddo E si denunciava la persona perché neanche si conosceva. La si odiava. E lei che poteva fare? Lei sapeva di odiarlo.



Sperava che qualcuno nel mondo pregasse Dio affinché lui venisse perdonato, perché lei no, non lo avrebbe mai fatto, non lo avrebbe perdonato e non avrebbe chiesto al Signore di farlo per lei. Giocava con le margherite, sperando che sparisse. Ma lui era sempre lì e quando finiva e la baciava tra i seni appena fatti dicendole «Piccolina, stai diventando perfetta», lei avrebbe voluto ucciderlo. Invece rimaneva inerme con un dolore lancinante tra le gambe, e un dolore indescrivibile e infinito dentro. Non poteva parlarne con nessuno, non ne aveva la forza, si sentiva solo un animale che lui scuoiava vivo. A volte sperava che lui lo facesse davvero, così non avrebbe avuto più niente, non avrebbe avuto più un cuore, non avrebbe avuto più lui dentro di sé. Sarebbe volata via da qualche parte, lontana dalla sua casa calda e asciutta, lontana dalla sua pelle sporca, dai suoi capelli neri e i suoi occhi profondi, dal suo visino che tutti definivano delicato e imbronciato. Voleva solo fuggire via, nei luoghi che descrivevano i documentari; con la sua musica e la sua anima. Voleva solo che suo padre e tutti quelli schifosi come lui morissero all’inferno, perché quelli credono che alcune persone siano solo oggetti, credono di essere potenti e bravi, credono che entrare nel corpo di una altro sia una cosa lecita, a loro permessa perché sono forti, perché credono che coloro di cui abusano non siano niente. E forse è così, perché ormai lei non era niente: lui l’aveva trasformata in ciò che voleva, e forse sarebbe stata lei a finire all’inferno.