Capitolo 9
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PER SAPERNE DI PIù
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«Torno presto.» Questo gli aveva detto Thari andandosene.
Ma erano passati tre giorni e lui non poteva più resistere. Si era coperto con i lenzuoli del proprio letto e con uno aveva creato una sacca in cui mettere le bottiglie d’acqua e i biscotti. Non era certo di quello che stesse per fare, ma la frustrazione e la sensazione che tutto ciò che stava vivendo fosse oltre le capacità umane, gli diede la spinta per avventurarsi.
Nord est. Quella era la direzione in cui, a detta di Thari, si trovava il primo villaggio; doveva solo seguire quella direzione e con tre, forse quattro giorni di marcia sarebbe arrivato. Là avrebbe chiesto aiuto e in qualche modo sarebbe tornato a casa, a Roma.
Lei non glielo aveva detto, ma il ragazzo aveva capito dalle poche informazioni che aveva fornito che Thari era nella capitale italiana per far rinascere una persona. A quanto pareva i demoni della rinascita erano così occupati nell’espletare i loro doveri che Iside non riusciva a coprire sempre il lavoro di entrambe. E c’erano rinascite che non potevano aspettare.
Sotto il sole africano Ryker sospirò.
Come poteva essere finito in quel guaio? Voltandosi indietro si accorse di non avere più idea di dove fosse la casa di Iside. Decise di non voltarsi più e di proseguire il più velocemente possibile.
Tuttavia, quando il sole si fece alto nel cielo, l’aria divenne secca e respirare significava raschiare dentro naso e bocca. Dovette rallentare il passo e bere più volte a piccoli sorsi. Fu solo dopo il tramonto, però, che si rese conto dell’insensatezza di quella decisione; eppure lo sapeva che il deserto era infame, lo sapeva che la notte poteva essere gelida e che la sabbia poteva nascondere bestie velenose.
Lui che tutta la vita aveva calcolato i pro e i contro di ogni azione, che non aveva fatto scelte senza prevederne le conseguenze, ora si trovava, come un qualsiasi sprovveduto, da solo nel deserto con qualche lenzuolo di cotone e pochissimi viveri.
La sua vita era cambiata. Lui era cambiato. Questo era il punto a cui non riusciva a dare voce: Thari lo aveva trasformato per sempre, con il suo mondo, le sue battaglie, i suoi stupidi complessi da ragazzina emarginata.
Thari e la sua forza. Thari e la sua dolcezza. Thari e il suo bellissimo viso. Come aveva fatto a cedere a qualcosa di così irreale? Per quello si trovava nel bel mezzo del Sahara.
O forse non era andata così: Thari si era innamorata di lui prima che lui potesse anche solo sapere di quel mondo di demoni che regolava la vita degli umani. Ryker emise una risata disarticolata, priva di felicità: qualsiasi ragazza che avesse frequentato era stata allontanata da lui prima che potesse diventare qualcosa di serio, perché non poteva permettersi di abbandonare la famiglia, non ancora. Ma Thari si era innamorata prima.
E mai lontananza da casa fu più reale di quella.
Si addormentò tremando di freddo, e chiedendosi se avrebbe mai rivisto il padre, Matteo e Lucrezia. Lucrezia, la sua piccola Lucrezia.
L’alba nel cielo infinito lo svegliò quando a ovest si vedevano ancora le stelle. Non si rese neppure conto di aver di nuovo iniziato a camminare e si riscosse sorpreso quando le dune sabbiose lasciarono il posto a un deserto piatto, dalla terra brulla e polverosa.
A sud est, in lontananza, delle montagne si alzavano isolate e inquietanti. Ryker sospirò e continuò a camminare sotto il sole mischiando il viso candido di Lulù a quello onice di Thari; le immagini, del tutto diverse tra loro, apparivano confuse nella sua mente stanca.
In quello stato passò due giorni, fino a quando nel tardo pomeriggio non scorse una macchina venirgli incontro.
Il ragazzo strinse le palpebre, tentando di mettere a fuoco, e nel comprendere che fosse una jeep alzò le braccia d’istinto e urlò: «Sono qui.»
La vettura lo raggiunse e ne scesero due uomini dalla carnagione olivastra che indossavano abiti europei. Uno dei due puntò un’arma corta verso di lui, mentre l’altro si avvicinava.
«Ehi, sono italiano.» Provò a dire Ryker facendo un passo indietro. Ma l’altro gli rispose in una lingua sconosciuta, con un tono alto e frettoloso. Lo afferrò per un braccio e gli chiese qualcosa.
«Sono italiano», ripeté Ryker, questa volta in inglese. «Mi sono perso e devo raggiungere l’ambasciata italiana.» La sua voce tremò di una paura atavica nell’osservare l’arma contro di lui.
«Aş-Şmt!» Fu tutto quello che gli risposero gli uomini e senza neppure tentare di comprenderlo. Quello più vicino lo tirò, allora Ryker fece resistenza e tentò di divincolarsi; l’altro non ci pensò neppure un attimo: sferrò un pugno con la destra e lo colpì in volto.
Ryker ansimò per la sorpresa più che per il dolore e il sangue gli colò lungo la guancia. Insieme i due uomini lo trascinarono dentro la macchina, dove lo ammanettarono e lo bendarono.
Nel buio completo Ryker li sentì parlare e si sentì ripetere sottovoce. «Sono italiano.»
***
Doveva essersi addormentato, perché quando la macchina si fermò fece uno scatto in avanti e da sotto la benda che gli copriva gli occhi vide filtrare luce solare.
Qualcuno lo prese e lo fece scendere fuori dal veicolo, poi lo spinse parlottando in quella che il ragazzo pensava fosse lingua araba. Lo condusse lungo un cammino rettilineo poi svoltarono un paio di volte fino a fermarsi davanti a una porta. L’altro l’aprì e lo spinse dentro, senza una parola.
Rimase immobile per diversi minuti, chiedendosi se ci fosse almeno un muscolo del suo corpo che non dolesse. E pensò che no, non c’era. Infine la porta fu aperta di nuovo e un paio di mani dalle dita, ruvide e callose, gli sciolse la benda; il possessore di quelle dita lo studiò qualche secondo e aggrottando la fronte gli domandò qualcosa.
«Non capisco.» Replicò il ragazzo senza riuscire a nascondere la frustrazione e la rabbia.
L’uomo si grattò la barba brizzolata e urlò qualcosa verso fuori. Poco dopo lo raggiunse un altro uomo, armato, che tirò fuori da una delle sue tasche un foglio logoro e ripiegato più volte su se stesso; lo aprì e lo stese per bene, mostrandolo a Ryker.
Lui lo guardò perplesso. L’uomo che era entrato per primo batté l’indice sul suo petto e poi sul foglio che rappresentava la cartina dell’Europa. Ryker allora indicò l’Italia.
Il secondo uomo agitò la pistola e borbottò qualcosa, manifestando palese dissenso. L’altro non vi badò, ripiegò la cartina girando sui tacchi e uscendo dalla stanza.
«Ehi, slegatemi le mani.»
L’uomo armato, che doveva avere una trentina di anni, sogghignò guardandolo sollevare i polsi legati, e rise ancora di più quando lo stomaco del ragazzo brontolò. Uscì chiudendo di nuovo a chiave la porta.
Ryker poggiò le spalle al muro e strinse le labbra, osservando la stanza piccola, buia e dalle pareti senza intonaco. Scivolò a terra e batté il capo al muro meccanicamente: non poteva credere a quella situazione. Imprecò sottovoce e poi rise, una risata disperata che si spense gradualmente, mentre davanti a lui si materializzava un corpo nero.
Si irrigidì e poi si rilassò mettendo a fuoco la sclera bianca delle orbite. «Thari.» Mormorò.
Lei inclinò il viso, con un’espressione molto seria. «Almeno te la ridi.» Commentò, inchinandosi sulle gambe.
«Mio Dio» replicò lui. «Questa volta spero che tu sia reale, dimmi che sei reale, che sei qui e mi porterai via.»
Lei osservò il taglio che il ragazzo aveva sotto l’occhio, provocato dal pugno che gli avevano dato. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse; quindi allungò una mano e la poggiò sulla sua guancia.
Lui rimase immobile avvertendo il calore che emanava dal palmo di lei. «Mi dispiace.» Disse a bassa voce. «Thari, mi dispiace davvero. Non stavo scappando… da te. Io non lo so perché l’ho fatto.»
Lei gli fece cenno di fare silenzio. «Vuoi rimanere qui o tornare a casa di Iside?» Chiese atona, alzandosi e senza guardarlo.
«Tornare con te.»
Lo fissò per un minuto interminabile, infine lo sollevò da terra con la solita facilità e aggrottò la fronte. «Sei sicuro?»
Lui scosse il capo. «Pensi davvero…»
«Allora chiudi gli occhi.» Lo interruppe, gelida.
«Perché?»
«Chiudi gli occhi e basta, Ryker. Chiudi gli occhi e fai silenzio; entrambe le cose fino a che non dico il contrario.»
***
Il gorgogliare di una delle fontane della casa riempiva l’eco di un’allegria sommessa, tra le pareti senza tempo che silenziose raccoglievano i movimenti calcolati del demone e dell’umano. Ryker aveva mangiato e fatto una doccia, infine aveva dormito a lungo nel letto a baldacchino in cui aveva sempre dormito quei giorni.
Doveva essere primo pomeriggio e le tende frusciavano leggere. Spostò la mano sul cuscino setoso ed emise un sospiro appena percepibile. Cinque dita vellutate si poggiarono lentamente sulle sue; il tocco di una farfalla che si posa su un fiore; il calore di un raggio di sole.
«Ryker?»
La sua voce era troppo dolce, una dolcezza che stordiva, perché lei lo stordiva. Con il dolore graffiante; la rabbia millenaria; l’amore serico, tenero e sensuale. Quel sentimento puro penetrava nella pelle, un veleno troppo buono. Il tuo amore mi ucciderà.
«Ryker?»
Ripetilo mille e mille volte; e non mi basterà. Il proprio nome che risuonava cristallino sulle labbra di lei; breve. Così breve. E nient’altro sarebbe stato concesso loro.
«Ryker. Perché non mi rispondi?» La nota di paura; l’infrangersi del cuore su scogli taglienti privi di pietà.
«Thari?» Poteva chiamarla senza guastare quei fragili lembi di perfezione?
Lei spostò la mano e lui aprì gli occhi. Non poteva. Thari voltò il viso, nascondendo emozioni e paure. Sedeva sul bordo del letto, le mani sul grembo, le ali congiunte quasi in una preghiera. «Come stai?» Domandò fissando l’arco della porta.
Lui si mosse lentamente e si mise a sedere. «Tu come stai?»
Il modo in cui lei voltò il viso verso di lui, il modo in cui i suoi occhi tremarono appena, gli fecero pensare che, pochissime persone nella sua lunga vita le avessero posto quella domanda.
Thari passò le dita sottili sulle pieghe del lenzuolo, un rosso ramato che si perdeva nell’oscurità della sua pelle. «Perché sei andato via?»
Che gioco era quello di porsi solo domande? Che gioco è quello in cui una donna chiede solo per farsi del male? Vanth Kriera Nefthari era troppo umana e lo era troppo poco.
Ryker si piegò in avanti, le prese un polso con delicatezza e l’attrasse a sé, tenendola stretta in un abbraccio di piume e respiri. Se lei non avesse chiesto, se lei non si fosse innamorata, se lei non fosse stata un demone. «Credo che quegli uomini stessero pensando a un riscatto. Forse speravano fossi di qualche altra nazionalità.»
Lei esitò e poi sciolse l’abbraccio. «Perché? Perché sei andato via? Perché adesso? Perché così?» Solo un rivolo di disperazione avvinghiato a quel timbro scevro da qualsiasi tipo di collera.
«Non dovresti chiedermelo. Lo sai perché l’ho fatto. Tu non c’eri e io» qualsiasi parola avrebbe fatto male «Thari, io impazzisco qui. Ho bisogno di tornare a casa.»
Lei annuì e si alzò. Lui fece lo stesso, tenendo stresso addosso alla vita quell’unica stoffa che da giorni era il suo vestito. Voleva dirle che le dispiaceva, che per lui era doloroso. Tuttavia lei si fermò e puntò gli occhi in quelli di lui. «Non posso tenerti qui contro la tua volontà, come Figlia di Ananke non posso in nessun modo intaccare il tuo libero arbitrio. Ma non condivido questa scelta: la trovo avventata, egoistica, illogica. La trovo stupida.»
La sofferenza che stillava ora da quella rabbia non fu abbastanza. «Te la dico io una cosa che non puoi capire: questo; l’amore per la famiglia, la normalità della vita. Il bisogno di logica e concretezza.»
Lei alzò il viso. «Non è questo il punto, Ryker. Non dobbiamo per forza capirci, non te l’ho neppure mai chiesto; il punto è che se sei qui è perché ne va della tua vita, oltre che della mia. È perché se non è la vita a essere in pericolo è la tua sanità mentale, e lo hai visto da solo cosa vuol dire. Aspettare che la situazione si calmi è un compito duro per te, lo so, ma non attendere qui è da sciocchi.»
«Io devo tornare. La mia famiglia ha bisogno di me.» Replicò lui laconico.
Le estremità delle sue ali si mossero in un movimento piccolissimo, fendendo l’aria dietro di sé. «La tua famiglia non ti avrà più, se torni adesso. Qualche demone vorrà farti rinascere; non lo capisci?»
Ryker fece uno scatto con la mano. «Oh, basta con questa storia del rinascere: uccidere! Uccidere! Voi uccidete le persone, voi vi uccidete a vicenda. Tu uccidi. E mi hai coinvolto in questo casino.»
Thari fece per rispondere, ma le parole le vennero meno e richiuse la bocca distogliendo lo sguardo. Si morse l’interno della guancia fino a sentire il sapore metallico del suo sangue umano; il tentativo di non manifestare nessuna emozione che falliva miseramente sugli angoli piegati delle sopracciglia, gli angoli della bocca, sotto le palpebre semisocchiuse.
Il tuo amore mi ucciderà.
«Lasciami solo, per favore.»
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Non so, questo capitolo non mi soddisfa.